La confessione del datore di lavoro

LA CONFESSIONE DEL DATORE DI LAVORO

Per la Suprema Corte, sentenza n. 6825/2022, la dichiarazione contro di sé del datore di lavoro non basta per contestare illeciti ispettivi.

L’articolo in sintesi:

  • Capita che nel corso di accertamenti ispettivi i datori di lavoro, chiamati in modo cogente a collaborare, offrano dichiarazioni contra di sé
  • A parere degli ispettori del lavoro solitamente tale dichiarazione viene intesa quale confessione e tanto basta a fondare gli illeciti che vengono contestati
  • A parere della suprema corte, tuttavia, tali dichiarazioni rilasciate agli ispettori quali soggetti terzi, non hanno natura confessoria e vanno valutate dal giudice
  • Per cui gli ispettori, anche nel caso di dichiarazioni indizianti del datore di lavoro, sono tenuti a offrire ulteriori riscontri probatori ai loro assunti

Come noto il datore di lavoro è tenuto a collaborare con gli ispettori, dovendo offrire loro ogni chiarimento e la produzione di evidenze e documenti richiesti. Con il rischio, in carenza dell’adeguata adesione, della commissione del reato di impedimento alla vigilanza di cui all’art. 4, Legge n. 628/1961 (ma potenzialmente, in alternativa o in via cumulata, anche dell’illecito amministrativo di cui all’art. 3, comma 3, D.L. n. 463/1983, o del delitto di interruzione di ufficio o servizio pubblico, art. 340, c.p.).

IMPEDIMENTO ALLA VIGILANZA
Così per l’art. 4, L.n. 628/1961
Coloro che, legalmente richiesti dall'Ispettorato di fornire notizie a norma del presente articolo, non le forniscano o le diano scientemente errate ed incomplete, sono puniti con l'arresto fino a due mesi o con l'ammenda fino a euro 516. 

Per cui, costretti a collaborare, dare e rispondere, i datori di lavoro (e non solo loro, beninteso) possono essere indotti a fare e dire cose indizianti per le loro persone e le loro attività.

Una dichiarazione dello stesso imprenditore che si “autoaccusasse” di avere tenuto una determinata condotta o di avere operato scelte di un certo tenore e contenuto, costituisce senz’altro una risorsa probatoria utilissima per gli ispettori del lavoro. I quali, posti al cospetto di una “confessione” dell’azienda, sono soliti assumere i previsti provvedimenti di legge che paiono loro emergere.

Una volta che venga redatto il Verbale di accertamento ispettivo sulla base della verifica effettuata -in sostanza prendendo atto delle parole del datore di lavoro-, pare che per l’azienda ispezionata vi sia poco da fare. Le difese si dovranno scontrare contro l’evidenza delle dichiarazioni già verbalizzate e l’esigenza di superare la fede pubblica dello stesso Verbale dei funzionari.

L’atto di accertamento, come si sa, può risultare probante anche fino a querela di falso, ex art. 2700 cod.civ.: ma non per tutte le “affermazioni” in esso contenute, come noto (cfr. ex multis, Cassazione, del 07.11.2014 n. 23800).

VALORE DI PROVA DEL VERBALE ISPETTIVO
Così, ex multis, Cassazione, sentenza n. 23800/2014
Il verbale di accertamento dell'infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti ed alle valutazioni del verbalizzante, né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone, ovvero ai fatti della cui verità si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche.

Nell’uso del personale ispettivo, in definitiva, quanto confessato dai datori di lavoro non può che costituire la prova provata -assoluta e certa- di ciò che verrà poi contestato. A parere dell’amministrazione, si tratta di un’evidenza incontrovertibile e insuperabile che riduce al lumicino le possibilità di difendersi e controbattere da parte delle aziende.

L’idea di ritenere la dichiarazione del datore di lavoro, non solo auto-indiziante, ma addirittura una confessione tout court quanto alla propria condizione e attività (anche illecita, pertanto), risulta tutto sommato ben accolta anche presso i Tribunali, pure considerando la generalmente ritenuta maggiore conferenza delle dichiarazioni poste in essere nell’imminenza dell’accesso ispettivo e nel corso delle indagini (cfr. Cass. sentenza n. 24208/2020 che parla di “maggior rilievo alle circostanze riferite dagli interessati ai verbalizzanti, nell’immediatezza dei fatti, piuttosto che alle circostanze da essi riferite in sede di deposizione in giudizio”).

A parere della Suprema Corte, tuttavia, vanno operate delle importanti distinzioni. Infatti, si viene oggi a precisare (Cassazione, Sentenza n. 6825 del 2.3.2022) come la dichiarazione contro di sé del datore di lavoro, lungi dal potere essere considerata una mera confessione ex art. 2735, cod. civ. -tale da chiudere ogni questione quanto alla prova-, andrà attentamente, benché liberamente, apprezzata dal Giudice (e quindi motivata in modo logico e corretto), anche alla luce di ulteriori (o assenti) evidenze e prove emerse dall’ispezione.

In definitiva, le sole dichiarazioni del datore di lavoro non bastano alle contestazioni. Esse possono trovare conferma soprattutto e solo nell’intreccio dei vari riscontri incrociati (dunque, rispetto ad altri documenti, dichiarazioni, ecc.).

DICHIARAZIONI INDIZIANTI DEL DATORE DI LAVORO
Così per la Cassazione, sentenza n. 6825/2022
La dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo non ha valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria nel rapporto processuale, ma costituisce prova liberamente apprezzabile dal giudice in quanto l’ispettore del lavoro, pure agendo quale organo dell’amministrazione, non la rappresenta in senso sostanziale, e, quindi, non è il destinatario degli effetti favorevoli, ed è assente l’animus confitendi, trattandosi di dichiarazione resa in funzione degli scopi dell’inchiesta.

In effetti la sentenza ripropone un indirizzo già assunto in passato dalla S.C., ma poco seguito presso le sedi giudiziarie di merito (cfr. Cass. sentenza n. 17702/2015 e sentenza n. 28468/2019).

Per cui, il giudice che si limiti a ritenere “automatica” e piena la prova degli illeciti contestati in forza delle sole dichiarazioni del datore di lavoro trasgressore, in difetto di convincenti motivazioni, rischia di violare e falsamente applicare gli articoli 2733 e 2735 del codice civile in materia di confessione (“La confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale [ex art. 2733 cod.civ.]. Se è fatta a un terzo … è liberamente apprezzata dal giudice”).

Nel caso considerato dalla Cassazione, sentenza n. 6825/2022, i giudici di merito avevano fondato il proprio convincimento della sussistenza dell’obbligazione contributiva, attribuendo alla dichiarazione, resa in sede di accesso ispettivo, dal titolare, dal lato passivo, del rapporto contributivo, valore confessorio e, dunque, di prova legale, mentre avrebbe dovuto riconoscere a detta dichiarazione il semplice valore di elemento di giudizio, liberamente valutabile, attesa la natura di “soggetto terzo” dell’ispettore.

Ragione per cui i giudici di legittimità hanno accolto l’istanza del datore di lavoro ricorrente che lamentava l’automatismo probatorio con cui si era giunti alla condanna.

Articolo a cura di MAURO PARISI – estratto da V@L – Verifiche e Lavoro n. 1/2023

V@L – Verifiche e Lavoro è la prima rivista specializzata in Italia in materia di ispezioni e controllo sul lavoro da parte degli organi pubblici competenti, su lavoro, previdenza, assicurazione e sicurezza.

I nostri ricorsi ragionati vogliono essere uno strumento operativo, una guida pratica per difendersi in caso di verbale ispettivo.

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