Il CCNL “giusto” per gli istituti
Malgrado le nette posizioni degli Istituti, esistono limiti e incertezze rispetto alle pretese pubbliche di vedere applicato un CCNL piuttosto che un altro. L’approfondimento della normativa in materia, infatti, non consente di giustificare imposizioni cogenti di determinati accordi, se non a limitati scopi pubblicistici.
La nota libertà di scegliere e applicare un CCNL tra i molti conclusi dalle organizzazioni sindacali e di rappresentanza, sempre più spesso si scontra con la pretesa della Pubblica Amministrazione di vedere rispettato il contratto collettivo “giusto”, e nel modo “previsto”.
L’idea che possa esistere un contratto “corretto” e altri che, evidentemente, non lo sono, non parrebbe conciliabile con la concezione fondamentale che esista una (certa) libertà concessa alle parti del rapporto di lavoro di eleggere discrezionalmente un accordo collettivo, anziché un altro.
Tuttavia, ammettendo a priori che tale accordo “giusto” esista, appare indiscutibile che per rendere legittima l’azione della Pubblica amministrazione (che, va da sé, esercitando pubblici poteri, non può fare “quello che vuole”), e, in particolare, degli Istituti competenti in materia di lavoro e previdenza, sia necessario che sussistano legittimanti e puntuali previsioni normative al riguardo. In difetto, l’azione di scrutinio e imposizione del CCNL da parte di Pubbliche amministrazione e Istituti diventerebbe comunque arbitraria e l’esercizio dei poteri pubblici, abusivo.
Il problema, come si vede, è molto pratico e lascia poco spazio agli spesso sofisticati, ma poco pragmatici, dibattiti che si svolgono al riguardo.
Merita appena di essere osservato come la sussistenza di precetti che indichino la necessità di applicare un preciso CCNL a una certa azienda, sembrerebbe scontrarsi, innanzitutto, come la nota inattuazione della previsione costituzionale (art. 39, Cost.: “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”). Niente “registrazione” delle Organizzazioni sindacali, dunque, niente valenza erga omnes degli accordi collettivi.
Eppure la partita del confronto tra datori di lavoro/committenti e Pubbliche amministrazioni si potrebbe sottrarre a detto vincolo, ove entri in effetti in gioco, al riguardo, cogenti previsioni di rango non costituzionale. Tali disposizioni, allorquando esistano davvero, occorre che siano di contenuto definito, non bastando lo siano, tirate le somme, solo approssimativamente. La circostanza, va da sé, rischia di compromettere il rispetto del principio di legalità.
Volendo -di non poco- sintetizzare le ricadute pratiche e contingenti delle pretese pubbliche a cui sono sottoposti i datori di lavoro, si può notare che, per esempio sotto il profilo previdenziale, operando chiaramente gli Istituti sul versante pubblicistico (e quindi, si direbbe, con equidistanza e terzietà rispetto alle parti del rapporto di lavoro), in linea di principio e contrariamente a quanto si creda, essi non sono chiamati a reclamare dall’azienda l’effettiva l’applicazione di un particolare CCNL piuttosto che di un altro. Invece, molto più prosaicamente -e indirettamente-, tali enti sono tenuti a perseguire i propri diritti di credito, quanto a contributi e premi, commisurandoli (in modo onnicomprensivo e per anno d’imposta, come non solitamente scordano di fare) alla retribuzione stabilita da “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale” (art. 1, D.L.n. 338/1989).
Dunque, se agli Istituti non spetta giudicare la scelta del CCNL applicato in azienda, gli stessi devono limitarsi a verificare che i versamenti di spettanza siano comunque operati in ragione dei minimali stabiliti dai CCNL di OO.SS. comparativamente più rappresentative nella categoria, secondo l’interpretazione autentica della predetta disposizione, ai sensi dell’art. 2, c. 25, Legge n. 549/1995.
L'articolo 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria.
Questa sorta di “schizofrenia” nella valutazione pubblicistica di rilevanza del CCNL (“giusto”) rispetto a quello applicato (i quali, quindi, possono coincidere o meno) viene conosciuta -anche da autorevole giurisprudenza (cfr. Cass., Ordinanza 19.05.2023 n. 13840)-, come “principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva”.
Tutto sembrerebbe semplice, dunque: rinvenuta la “categoria” di attività posta in essere dal datore di lavoro, nonché le organizzazioni sindacali che in essa risultano “più rappresentative”, non dovrebbe sfuggire quali sono i CCNL in grado di determinare il trattamento imponibile, base del calcolo esatto degli importi da versare agli Istituti.
Se non ché, sorgono solitamente notevoli questioni non solo sull’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali -risolte di norma in via di mera presunzione-, ma pure su come debba intendersi davvero perimetrata una “categoria” di attività da avvincere all’uno, anziché a un altro contratto collettivo.
In linea di approssimazione, certamente, può dirsi, secondo la disposizione dell’art. 2070, cod.civ., che la “categoria professionale… ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”, in una sorta di rapporto di specie a genere con i settori produttivi dell’inquadramento previdenziale (art. 49, L.n. 88/1989).
Tuttavia, mentre gli Istituti paiono sempre avere le idee chiare nell’individuare ex post il CCNL sulla cui base si sarebbero dovuti effettuare i versamenti di legge, con onestà occorre notare come, ex ante, altrettanta certezza nell’individuazione dell’accordo non sembra esservene. E non solo per la detta questione della “rappresentatività” di chi sottoscrive (immaginata, magari correttamente, piuttosto che provata puntualmente); ma pure in quanto la nozione di “categoria professionale” risulta, all’atto pratico, talvolta sfuggente e non univoca, spesso solo parzialmente coincidente con il campo di applicazione dei CCNL evocati ed evocabili. Il risultato è che sovente risulta astrattamente possibile indicare come applicabili alla categoria di attività considerata, più CCNL. Tutti “giusti”, quindi, si direbbe.
Del resto, a oggi, non esiste regola che imponga di considerare il CCNL con campo di applicazione più specifico, rispetto a uno più generico; o che risolva il “conflitto” tra contratti collettivi parimenti “rappresentati” e sovrapponibili, a favore di qualcuno di essi. Tutto è lasciato al convincimento di funzionari e giudici.
Quanto alla prova della maggiore rappresentatività delle OO.SS., attualmente l’INPS sempre più di frequente ricorre ai dati dei propri archivi relativi ai flussi informativi delle denunce mensili Uniemens, che recano, tra l’altro, indicazione del CCNL applicato. A parere dell’INPS, da tali dati aggregati si dovrebbe trarre la dimostrazione dell’effettiva consistenza numerica dell’applicazione dei contratti collettivi in un dato settore di attività.
Va considerato, tuttavia, che la prova tangibile dell’omogeneità del settore/categoria oggetto di verifica e dei riferimenti agli Uniemens conteggiati, andrebbe dimostrata puntualmente dall’Istituto, non bastando la sua mera enunciazione in giudizio. Del resto, merita appena di essere notato che la nozione di “massima applicazione” del CCNL in un settore e quella di “maggiore rappresentatività” delle OO.SS. che l’hanno sottoscritto, non sono concetti che, logicamente, di per loro (se non forse tendenzialmente, ma con necessità di prova in concreto), coincidono.
A fronte di queste indispensabili premesse di metodo, pertanto, i CCNL “giusti” in un dato “settore” di attività, potrebbero essere più d’uno, tutti sottoscritti da OO.SS. comparativamente più rappresentative nel settore. Per cui sarebbe ammissibile che essi fossero chiamati a regolare le medesime attività, dati campi di regolamentazione sovrapponibili, in tutto o nell’ambito di un ampio spettro di lavori considerati, senza che per forza gli uni debbano prevalere sugli altri.
Si prenda l’esempio dell’attività di un’azienda che opera nell’ambito di manifestazioni e convegni, la quale volesse applicare il CCNL Safi (servizi ausiliari, fiduciari e integrati), anziché il CCNL del Terziario Distribuzione e servizi. Il primo, indica ricadere nel proprio campo di applicazione, tra l’altro, le “attività di assistenza all’organizzazione di manifestazioni di qualsiasi genere”; il secondo, espone di essere destinato alle “società di organizzazione e gestione di congressi, esposizioni, mostre e fiere”.
Entrambi i CCNL, dunque, parrebbero nel caso astrattamente applicabili, ma con conseguenze economiche non indifferenti per i lavoratori e per gli Istituti di previdenza, essendo più remunerativo il CCNL Terziario. Eppure, non ricorrerebbe alcuna lesione dell’art. 1, D.L.n. 338/1989, ove al caso in esame si applicasse il CCNL economicamente meno valido, anche in chiave contributiva, non essendo previsto per legge che la parametrazione della contribuzione debba avvenire alla luce della migliore retribuzione garantita nella categoria.
Per non mettere a rischio i datori di lavoro, i professionisti e le loro scelte, evitando conflittualità, in definitiva, sarebbe auspicabile che oggi l’INPS e l’INAIL fossero in grado di indicare a priori, per ogni categoria di attività, il CCNL di riferimento su cui calcolare con certezza i trattamenti minimi contributivi. Ove ciò non fosse possibile e fondato in modo univoco e incontrovertibile, tuttavia, in presenza di più CCNL maggiormente rappresentativi (e ammesso che il problema di tale prova sia superabile), ogni pretesa di differenza contributiva a posteriori dovrebbe considerarsi infondata e non sostenibile -come necessario- per legge.
Ulteriori e realmente fondate pretese pubblicistiche degli Istituti quanto all’“applicazione” di un determinato e “giusto” CCNL, oltre a quelle dell’art. 1, D.L.n. 338/1989, non sono poi così numerose.
In linea di principio, quanti verificano il rispetto di contratti e accordi collettivi (“Il personale ispettivo ha il compito di: …b) vigilare sulla corretta applicazione dei contratti e accordi collettivi di lavoro”: art. 7, D.Lgs n. 124/2004), non sono tenuti che a prendere atto di quale sia il CCNL applicato dall’azienda e a verificarne (senza possibilità di sanzione alcuna, se non prevista espressamente) la correttezza del suo rispetto.
La contestazione del mancato rispetto dell’applicazione del contratto collettivo prescelto dalle parti o di quello stabilito ad alcuni effetti privatistici per legge -esclusa la possibilità di effetti “sostitutivi” d’ufficio con altro CCNL che si ritenesse più “giusto” (salvo per i detti profili contributivi)- potrebbe condurre a un provvedimento di disposizione del personale ispettivo (art. 14, D.Lgs n. 124/2004). In queste ipotesi, riscontrandosi comunque un’irregolarità in materia di lavoro e legislazione sociale, come anche chiarito dal Consiglio di Stato (sentenza n. 2778/2024), sarebbe possibile la prescrizione. In difetto di adesione all’ordine, ne potrebbe però scaturire solo un’esigua sanzione amministrativa.
Alla luce delle novità del Decreto legge n. 19/2024, che hanno tra l’altro introdotto il comma 1175bis, dell’art. 1, L.n. 296/2006, modificando in parte il comma 1175, non può dirsi avere più motivo e fondamento alcuno -semmai ne avesse avuto in passato- la “teoria” elaborata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Circolari nn. 7 e 9 del 2019 e 2 del 2020), per cui solo il rispetto complessivo del CCNL sottoscritto da OO.SS. più rappresentative -o di quello ritenuto equivalente (secondo un processo di verifica assimilabile a quello ora previsto in ambito di appalti pubblici: cfr. Allegato I.01, D.Lgs n. 36/2023) sotto l’aspetto economico e normativo-, potrebbe garantire i previsti benefici contributivi e normativi. Infatti oggi risulta confermato come, alla luce del nuovo comma 1175bis, la correntezza contributiva dei versamenti e la regolarità riguardo alle eventuali infrazioni indicate con Decreto del Ministero del lavoro, garantiscono “il diritto ai benefici di cui al comma 1175”. A prescindere, quindi, dallo scrutinio del rispetto (ovviamente necessario, ma sotto altri profili) del CCNL.
L’esigenza della parametrazione di trattamenti retributivi secondo un CCNL indicato come “giusto” (e quindi la pretesa patrimoniale riferita a detto CCNL, pena l’intimazione pubblica con diffida accertativa, ex art. 12, D.Lgs 124/2004), risulta attualmente stabilita in materia di appalti di servizi. In particolare, il nuovo comma 1bis, dell’art. 29, D.Lgs n. 276/2003, fa riferimento, per il personale impiegato nell’appalto, al
trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l'attività oggetto dell'appalto e del subappalto.
Fermo quanto osservato, le pretese sempre più insistenti e generali degli Istituti che sia applicato un certo CCNL, sono sconfessate dalle molto parziali previsioni normative in materia. Risulta chiarificatore al riguardo, del resto, il Codice degli Appalti Pubblici, che bene scolpisce l’idea che le Pubbliche amministrazioni “non possono imporre … l’applicazione di un determinato contratto collettivo”.
Quanto ai rari aspetti normati, a ogni modo, le riflessioni sulle imprescindibili nozioni di “categoria” e “rappresentatività”, potrebbero iniziare proprio dal D.Lgs n. 36/2023 il quale, seppure ai suoi limitati fini, ricorda che
le stazioni appaltanti e gli enti concedenti individuano il contratto collettivo nazionale e territoriale di lavoro applicabile … previa valutazione: a) della stretta connessione dell'ambito di applicazione del contratto collettivo rispetto alle prestazioni oggetto dell'appalto o della concessione … [e che a tale fine] a) identificano l'attività da eseguire mediante indicazione … del rispettivo codice ATECO, secondo la classificazione delle attività economiche adottata dall'ISTAT… [Quindi] Nell'ambito dei contratti collettivi di lavoro coerenti… fanno riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati tra le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale presi a riferimento dal Ministero del lavoro
Un buon punto di partenza buono per confrontarsi concretamente con gli Istituti su cosa debba intendersi per CCNL “giusto”.
Articolo a cura di MAURO PARISI – Studio Legale VetL
Approfondimento del 26.06.2025
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